venerdì 27 gennaio 2017

Le madri della filosofia. Hannah Arendt

Una pensatrice che non voleva essere annoverata tra i filosofi, una donna capace di guardare in faccia il male e vederlo in tutta la sua banalità, spogliandolo del terrore che lo accompagna per analizzarlo con lucidità e notevole acume.

Un’intellettuale che visse il dramma delle persecuzioni naziste, portandone le cicatrici nell’anima, ma non perse mai la razionalità quasi “scientifica” per raccontarlo. Questa era Hannah Arendt (1906-1975). A lei è dedicato il post di oggi, in ricordo della Shoah e che inaugura anche la rubrica dedicata alle celebri filosofe della Storia.

Abbiamo detto che Hannah Arendt non amava essere definita una filosofa, poiché i suoi studi si focalizzarono sulla teoria politica (benché analizzata dal punto di vista filosofico). Nonostante ciò non è un paradosso, né una contraddizione inserirla in questa rubrica; l’intento della nuova serie di articoli, infatti, è quello di dare un senso più ampio al termine “filosofia”.

Hannah Arendt fu una “pensatrice”, ovvero una donna che riflette sul mondo, sulla Storia, sul passato e sul presente, sulla politica e sulla società valicando, quando necessario, i confini della filosofia stessa. Fu tutto questo e anche di più; il suo senso critico, la capacità di guardare oltre i pregiudizi, con cui ci fece conoscere la banalità del male, ne fa uno dei capisaldi del pensiero politico (e filosofico) della modernità.


La giovinezza

Hannah Arendt nacque a Linden, ma crebbe a Könisberg, città famosa per il suo passato storico e culturale. La famiglia della giovane aveva origini ebraiche, a causa delle quali divenne bersaglio della persecuzione nazista.

Hannah studiò filosofia a Marburgo, a Friburgo e a Heidelberg con Heidegger, Jaspers e Husserl. Sul suo legame intellettuale e sentimentale con Heidegger si è detto e scritto di tutto.

Di fatto il filosofo influenzò inevitabilmente il pensiero e la stessa esistenza della sua allieva. Il destino di tale rapporto, più volte interrotto e riannodato, difficile e controverso, fu deciso dalla guerra e dall’appoggio incondizionato di Heidegger al nazismo, collaborazione che la Arendt non capì e non giustificò mai.

A ventidue anni, nel 1928, la studiosa discusse la tesi di dottorato, incentrata sul concetto di amore nel pensiero di Sant’Agostino. La sua vita e quella della sua famiglia venne stravolta nel 1933, quando le leggi razziali spinsero Hannah, che non poteva accettare di osservare la Storia scorrerle davanti agli occhi senza poter fare nulla, a unirsi ad alcune organizzazioni sioniste clandestine di Berlino.

A quell’epoca era già sposata da quattro anni con Günther Stern, brillante filosofo ebreo fuggito a Parigi. La Gestapo, al corrente dell’attività politica della Arendt, considerata da tempo una sovversiva, la arrestò per liberarla dopo poco tempo, in apparenza senza particolari conseguenze.

Era evidente, però, che la Germania non fosse più un posto sicuro per lei. Forse la stessa detenzione era stata una sorta di avvertimento. Così Hannah decise di scappare a Parigi, consapevole del fatto che nessuno avrebbe potuto (e voluto) aiutarla.

Dal 1937, anno in cui le venne tolta la cittadinanza tedesca, al 1951, anno in cui ottenne quella statunitense la Arendt visse da apolide. Una persona senza patria, privata dell’identità e dei diritti, costretta a sopravvivere nella capitale francese in condizioni dure, circondata dal sospetto e dall’ombra dell’antisemitismo. Da donna forte qual era rifiutò di nascondersi, di mascherare le sue origini, di piegarsi di fronte a chi voleva spezzare la sua esistenza e la sua personalità.

Proprio a Parigi conobbe il giornalista tedesco Heinrich Blücher, che divenne il suo secondo marito nel 1940 e la introdusse negli ambienti intellettuali marxisti. Nello stesso anno Hannah venne internata nel campo di Gurs, costruito appositamente per rinchiudervi i rifugiati stranieri. Ottenuti i documenti per il rilascio, solo cinque settimane dopo, fu costretta a scappare di nuovo. Nel 1941 arrivò, con il marito, negli Stati Uniti.


La vita oltreoceano

A New York, dove si era stabilita, Hannah Arendt iniziò a lavorare per il giornale in lingua tedesca “Aufbau”, ovvero “Costruzione”, con cui collaboravano anche personaggi del calibro di Zweig, Mann ed Einstein.

Proprio attraverso gli articoli che vennero pubblicati su “Aufbau” possiamo conoscere il nucleo centrale del pensiero di questa straordinaria pensatrice. La Arendt, infatti, vi analizzò i fenomeni dei totalitarismi e dei nazionalismi, la vita degli apolidi, tema che la toccava personalmente e si dichiarò contraria alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Quest’ultima posizione la pose in aperto contrasto con la corrente maggioritaria del Sionismo.

Hannah, in effetti, riteneva che l’unico modo per rispettare i diritti di quanti già abitavano in Palestina e della stessa comunità ebraica che in quel luogo cercava una nuova vita, fosse fondare una federazione di Stati, o meglio, uno “Stato bi-nazionale” (Cristina Sanchez, “Hannah Arendt. La politica in tempi bui”, Hachette, 2015, pag.24).

Solo in questo modo sarebbe stata possibile la convivenza tra ebrei e arabi, ovvero nel rispetto dell’identità di ciascun popolo e dello “spazio territoriale” e, dunque, nazionale. Nel 1951 la studiosa pubblicò un’altra opera destinata a fare Storia, “Le origini del totalitarismo”, che le valse il riconoscimento internazionale e accademico.

Tra le pagine di questo libro troviamo il pensiero critico e lucido della Arendt, la necessità di
osservare, analizzare e capire (che non significa certo giustificare), di guardare in faccia la realtà senza nascondere (e nascondersi) niente. L’anno precedente Hannah era riuscita a tornare in Germania, constatando di persona le ferite che la guerra aveva lasciato nel Paese e che parevano insanabili.

La colpa di quanto accaduto, rifletté, non era imputabile alla comunità, bensì ai singoli individui, benché fosse innegabile il fatto che la stessa collettività, pur non senza eccezioni, era rimasta a guardare la ferocia senza intervenire per tentare di fermarla. Alla società, insomma, era ascrivibile l’errore del silenzio complice, anche se il fardello della responsabilità era individuale.

Grazie alle sue opere Hannah Arendt divenne un’intellettuale di spicco e si dedicò con sempre maggior interesse alla teoria politica e all’analisi del ruolo dei cittadini nello Stato. Nel 1961 un evento storico la costrinse a tornare indietro nel tempo, ritrovandosi faccia a faccia con un passato mai dimenticato, con ferite mai davvero chiuse.

Il New Yorker la inviò ad assistere al processo di Adolf Eichmann, il tenente colonnello nazista che, dopo la disfatta tedesca, era fuggito in Argentina, dove era stato rintracciato e arrestato dai servizi segreti israeliani. Da questo processo nacque “La banalità del male”, opera tanto importante quanto controversa per i contemporanei della Arendt.

Quest’ultima, infatti, non risparmiò critiche nei confronti di alcuni capi dei ghetti ebraici, accusati di aver obbedito con troppa sollecitudine agli ordini dei nazisti. Inoltre presentò Eichmann per ciò che era in realtà: un uomo banalmente “normale”, privo di particolare intelligenza e carisma, inetto, incapace di incutere il minimo timore in chi lo osservava. Insomma, non certo un “genio del male”. Tutt’altro.

L’opinione pubblica non si aspettava un ritratto del genere, ovvero un’immagine fin troppo vicina alla quotidianità; avrebbe, forse, preferito veder delineati i contorni di un’ombra malvagia, lontana, “diversa”. Invece il male è, la maggior parte delle volte, terribilmente vicino, può perfino passare inosservato per molto tempo, confuso tra le pieghe di giorni che sembrano tutti uguali. 

La Arendt, infine, sostenne che solo un tribunale internazionale avrebbe potuto giudicare Eichmann, in quanto le colpe di cui si era macchiato erano da annoverare tra i crimini contro l’umanità, non soltanto contro gli ebrei.

Molti non capirono fino in fondo l’importanza de “La banalità del male”, né la profondità e la razionalità del ragionamento dell’autrice, in grado di separare il bene dal male, di vedere oltre il dolore pur senza dimenticarlo. Hannah Arendt divenne il bersaglio di aspre critiche e di accese polemiche, ma non si fermò.

Era convinta che si potesse, anzi, si dovesse osservare e giudicare tanto il presente quanto il passato, formulando teorie nate sul terreno fertile di una mente libera e attenta. Per tutta la vita si interrogò sul ruolo politico dei cittadini, sui diritti degli uomini in generale e delle minoranze in particolare, sui concetti di politica e di potere, sull’espressione diretta di questi nella società e sul valore della democrazia. Continuò a scrivere e a tenere lezioni anche dopo la morte del marito, avvenuta nel 1970. Fino all’ultimo.

La sua ultima opera, rimasta incompiuta, è “La vita della mente” (1978). Hannah si chiese quale fosse il ruolo del pensiero nella politica, ma anche nell’esistenza umana. Pensare è compito di ognuno di noi; un diritto, ma anche un dovere e una responsabilità. La mancanza di pensiero porta al totale annichilimento e, di conseguenza, alla morte del bene.

Dobbiamo imparare a coltivare la nostra capacità di discernimento, porre continuamente domande, riflettere, avere dubbi, soprattutto nei confronti di “verità preconfezionate” che ci vengono presentate come uniche e immutabili.

Solo questo può salvarci dallo svilimento e dallo sgretolamento del pensiero e del mondo. Il pensiero di Hannah Arendt, basato sull’analisi diretta degli eventi, è attualissimo, un monito per i nostri tempi confusi e le nostre menti troppo spesso distratte dal nulla.


Bibliografia

Cristina Sanchez, “Hannah Arendt. La politica in tempi bui”, Hachette, 2015;

Boella Laura, “Hannah Arendt. Agire politicamente. Pensare politicamente”, Feltrinelli, 1995;

Arendt Hannah, “La banalità del male”, Feltrinelli, 2015;

Arendt Hannah, “Le origini del totalitarismo”, Einaudi, 2009.