domenica 25 novembre 2012

Una Nuova Vita

Un racconto che scrissi alcuni mesi fa, dopo aver ascoltato una delle innumerevoli e tristi storie di violenza. 

Tutto iniziò come un sogno. Troppo bello per essere vero. Avevo addirittura paura di viverlo, perché temevo potesse consumarsi e usurarsi attraverso i giorni e le notti. Per me era una rinascita, così intuii troppo tardi che poteva essere la mia fine. Quando lo vidi per la prima volta pensai di trovarmi di fronte ad un dio greco: bello, perfetto, colmo della vitalità che anche io avevo e di una dirompente sensualità che mai avevo conosciuto. Tra noi ci fu il classico “colpo di fulmine”. La mia vita, a quel punto, poteva dividersi in un prima e un dopo di lui. Non c’era altro intorno a noi, che riempivamo lo spazio ed il tempo che ci circondavano. Davvero ero certa che non sarebbe mai finita. Mi cullai per mesi in una dolce illusione, senza rendermi conto che mi stava trascinando sempre più in basso. Quella sottile gelosia che mi faceva sorridere e mi lusingava divenne angoscia e terrore. Non mi resi conto del fatto che la dolcezza era diventata ossessiva, le domande pressanti e la gentilezza un modo per evitare scontri. Non mi accorsi di avere una catena di finto amore stretta intorno ai polsi e alla gola. Alle volte avevo la sensazione di non riuscire più a respirare. Come se il corpo non ne fosse più capace, o si fosse arreso agli eventi. 

Dall’esterno la prigione dorata non era visibile: giorno dopo giorno sentivo su di me gli sguardi invidiosi della gente, i sorrisi maliziosi di chi credeva fossi una privilegiata. Che fortuna! Che affare! Un colpo del genere non capita a tutte. Come si poteva rifiutare? Dovevo essere grata a Dio, o a chi per lui, per tutta questa generosità. Ma una parte di colpa ce l’ho anche io: non dissi mai niente, non feci mai capire gli stati d’animo altalenanti del mio essere. Perché? Perché nessuno mi avrebbe creduto. L’Uomo Perfetto aveva anche la superba qualità di essere potente. E, si sa, quando il rispetto non può essere meritato può sempre essere preteso con la forza. Questo, almeno, è ciò che molti credono. Ma non io. Fu cosi che l’amore si trasformò in odio. In verità devo ammettere che non svelai mai il mio segreto ad anima viva, anche perché non riuscivo ad accettare che il mio sogno si fosse infranto e che mi fossi dovuta risvegliare bruscamente nella più tetra realtà. Non poteva essere vero, non poteva essere successo proprio a me e, per questo, cercai di tirare avanti. Far finta di niente, però, può fare davvero male. E’ tradire se stessi. La parte più razionale dell’anima può nascondersi dietro a cavilli o sottigliezze inutili, ma la nostra coscienza non si fa prendere in giro e ogni volta che proviamo a celarle un segreto lei lo scova e ce lo tira in faccia e a nulla serve tentare di schivarlo. Se non lo tiriamo fuori la nostra ombra inizia a colpire l’anima e i colpi si fanno sempre più violenti, come pugni nello stomaco che mozzano il fiato. 

Fu così che un giorno, verso la fine dell’inverno, decisi di lasciarlo e fuggire via. Avevo meditato quell’idea per settimane, poi, alla fine, scelsi di riprendermi la mia vita, perché nessuno lo avrebbe fatto al posto mio. Basta gelosie, ossessioni, urla, botte. Dovevo liberarmi da quelle catene o sarei morta. Al diavolo il potere, i soldi, la convenienza e la gente. La gente! Che ne sanno loro? Arroccati su squallide convenzioni, pronti a puntare il dito e a buttarsi su ogni nuovo pettegolezzo per distruggere e calpestare. La loro smania di intromettersi per poter dire la loro a qualunque costo, infischiandosene dei sentimenti su cui camminano sopra, ha dell’incredibile. Dov’è scritto che dobbiamo esporci sulla pubblica piazza di una moralità da copertina e sopportare di buon grado lezioni di vita da chi per primo le trasgredisce? La gente non poteva salvarmi. Io potevo e dovevo farlo. Il mio cervello funzionava ancora, anche se ci aveva messo del tempo a svegliarsi dall’intorpidimento d’amore o, meglio, di quello che ritenevo fosse amore. Se ci fosse stata la mia famiglia con me sarei stata più forte. Ma loro erano lontani e non ho mai voluto farli preoccupare. Se io stavo bene, loro erano felici. Meglio lasciarli vivere in questa illusione che, almeno nel loro caso, non poteva far male. Scappare non fu difficile: l’Uomo Perfetto si fidava di me, della mia inconsistenza dovuta all’apparente sottomissione. Non avrebbe mai pensato che potessi lasciarlo. Facevo parte del mobilio e i mobili da soli non vanno da nessuna parte. Cosi un mattino tiepido di primavera feci i bagagli e me andai, mentre lui era al suo prezioso e remunerativo lavoro. Prima di andarmene appoggiai la fede sul libro che stava leggendo, sopra al comodino. Ormai non mi serviva più. 

Quando chiusi la porta alle mie spalle iniziai a respirare: le catene si erano sciolte come neve al sole, la paura non esisteva più ed ero finalmente libera di vivere e di pensare a modo mio. Presi l’auto e costeggiai il lungomare con i finestrini aperti, perché mai come in quel momento avevo bisogno di aria. I fiori dei giardini erano sbocciati, gli alberi fioriti e tutt’intorno l’atmosfera era riempita dal canto vivace degli uccelli. Finalmente vedevo il mondo a colori: per me quello fu l’inizio della vita vera. I volti delle persone che incrociavo mi sembravano sereni, o forse era la mia anima che finalmente si era placata. Lui era alle mie spalle ormai e non lo avrei più lasciato entrare nella mia vita. E mentre io rinascevo, dentro di me si formava una nuova vita, che presto avrebbe visto la luce e che io avrei preservato dalle tenebre. Forse la vita è proprio questo: un eterno ciclo di nascita e rinascita in cui la morte non è che un semplice anello di congiunzione. 

Francesca Rossi

(Apparso per la prima volta nell'Antologia di Primavera di Diario di Pensieri Persi)

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